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UN MONDO DI BUGIE

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Io sono uno che sa recitare, sono più che convinto di questo. Potrei addirittura far del cinema, come se avessi studiato all’Actors studio nella Grande Mela. Mi piacerebbe viverci, ma è un’altra storia.

Recitare non vuol dire essere bugiardi. Vuol dire raccontare i fatti nel modo che più fa comodo, facendoli credere verità. Significa dire mezze verità o quanto basta a calmare le acque.

Alle medie un mio compagno un giorno venne interrogato a sorpresa: “Pascalino, vieni fuori che ti interrogo!” Brutta faccenda, l’Orlando Furioso non sapeva neppure che fosse e l’italiano non era la sua materia. “Non posso, professoressa.”

“Perché mai? Se non esci ti becchi un quattro!” Risposta rituale.

“Non ho potuto studiare.” Fu silenzio in classe. Non faceva piacere vedere volare i quattro e sentir controbattere un compagno era una cosa all’epoca del tutto inusuale. Una visita dal Preside era garantita, con chissà quali conseguenze.

“Ah, bravo e lo dici pure?” Qui la professoressa fece il suo errore, prestando il fianco al ragazzino.

“Sì, professoressa. Ieri mia mamma è stata ricoverata in ospedale, sta molto male.” Un’aurea di tristezza si diffuse tra i banchi, ciascuno pensando alla propria mamma e quanto potesse soffrire in quel momento il compagno, che aveva subito quella disgrazia.

“Ah, povero. Allora tu sei giustificato, tienimi informata e dimmi quando tua mamma tornerà a casa. L’interrogazione passa ad un altro.”

Dopo la P nell’ordine alfabetico c’è la R, io mi chiamo Ravelli e dovetti raccontare, come in un interrogatorio al commissariato, quanto avevo capito e sapevo dell’Orlando Furioso. Ero bravino a scuola e per miracolo mi salvai la buccia.

“Non sei stato brillante come il solito, stavolta non meriti più di sei e mezzo. Devi applicarti di più e non pensare di sapere sempre tutto, solo perché prendi bei voti.”

“Grazie professoressa.” Quel voto lo vissi male quanto un’insufficienza.

“Vai al tuo posto, da te pretendo il massimo e stavolta mi hai deluso. Probabilmente ritenevi di prenderla comoda, che non toccasse a te perché non pensavi che il povero Pascalino fosse giustificato.” Non presi l’insufficienza, ma disse e fece come se fossi stato il somaro del giorno.  “Non mi piace chi vive di rendita.” Rincarò pure la dose e per fortuna che la campanella suonò la fine della lezione. “Povero Pascalino, anche chi insegna ha un cuore.”

Due ore dopo uscimmo da scuola.

L’interrogazione poco brillante e le offese subite da quella d’italiano le avevo dimenticate. Avevo pure scordato la pena per quanto era capitato al mio compagno di scuola. Tutto mi tornò alla mente, quando davanti al cancello, in prima fila, vidi la madre del disgraziato, più bella e radiosa del solito. Pareva appena uscita dal parrucchiere. Altro che ricoverata!

Pascalino stava di parte a me, si usciva dal cancello di corsa e a spintoni. Cozzò contro la mia cartella, perché al vedere la rediviva mi bloccai di colpo. Lo guardai fisso negli occhi e quello alzò le spalle come per dire “L’ho fregata, ho fregato tutti quanti.”

Che bugiardo patentato.

Io bugie così non le saprei raccontare neppure oggi, anche perché penso possano portare sfortuna. Quel mio compagno al contrario era un’artista di prima categoria.

Tuttavia, senza calarmi nella menzogna, riesco a gestire la vita con recitazioni che mi consentono sempre di stare a galla.

Anni fa avevo un Capoufficio che era una vera pestilenza. Iracondo per un nonnulla, faceva rigare tutti diritti senza discussione. L’unico in grado per oltre dieci anni di gestirne le paturnie fui io. Oggi che è pensionato da tempo, ogni tanto mi telefona e ci vediamo. Mi vuol bene  come fossi un figlio.

L’ho sempre gestito da attore, trattandolo con le pinze come fosse ustionante. Qualche volta le situazioni erano così ingarbugliate che le districavo come fanno gli artificieri che sanno maneggiare gli esplosivi senza farsi male. Gli raccontavo le cose come sapevo che le voleva sentire. Gli dicevo quello che ero certo non lo avrebbe fatto arrabbiare. Il resto lo centellinavo con maestria, del tipo: “Non te lo avevo detto? ….Come immagino tu possa pensare… Ieri finalmente ti hanno dato ragione. Certo che se non ci fossi tu qui sarebbe…..” E via di seguito. Una recitazione finalizzata al quieto vivere, senza mai arrivare agli estremi del mio compagno di scuola.

Una volta, da ragazzino, tornavo a casa in motorino dopo essere stato da Giancarlo, l’amico del cuore che ha condiviso con me l’infanzia e l’adolescenza. Fino alla fine delle medie abitava nel palazzo vicino, poi i genitori decisero per la nuova casa in un altro rione, qualche chilometro lontano e fin che non fu l’età del motorino vederci fu una fatica.

Quella sera ero andato io da lui e, tornando a casa, mi venne l’idea di fare la strada contromano, per accorciare il tragitto, così da evitare una sorta di circonvallazione. Era inizio estate e aveva fatto buio da poco, poi non c’era anima viva.

A metà di una rampa che usciva da un sottopassaggio, rigorosamente fatta contromano e a tutta birra, vidi sopraggiungere in senso opposto dei fari, che mi lampeggiarono più d’una volta.

“Che cretino, chi ti ha dato la patente? Ci passi non vedi? Che sarà mai un contromano?”

Non ricordo se pure lo urlai, di certo le pensai tutte quelle domande. Mentre cercavo di evitare le luci, che oltre a lampeggiare avevano iniziato a ridurre la velocità e a portarsi verso di me, mi avvidi che sul tetto dell’auto che stava arrivando c’era un’antenna radio, bella lunga, come usavano taluni tamarri, che oltre l’antenna avevano il volante di pelo e i cuscini sul cruscotto posteriore.

“Che burinaccio.” Fu quando accesero il lampeggiante blu sul tetto, e tutto accadde nel tempo di pensare alla questione patente e burino, che capii chi diavolo erano: “Cazzo, i Carabinieri.”

Quello in parte all’autista scese dal mezzo che era ancora in corsa e mi bloccò il motorino in frenata afferrandolo per il manubrio, come fossi quel famoso latitante ricercato da tempo.

In quella situazione fui un novello Pascalino. “Sei impazzito, stai andando contromano. Tira fuori i documenti. Magari l’hai pure rubato il motorino.”

“Contromano?” Voce tranquilla la mia e priva di inflessioni.

“Sì, non hai visto il cartello di divieto d’accesso là in fondo?” Indicò con l’indice l’inizio della curva, dove sapevo bene che c’era il grosso cartello rosso del divieto.

“No, starà scherzando signor Carabiniere, vero? L’ultima volta che sono passato di qua era permesso.” Saper recitare vuol dire essere in grado di rispondere a tono e senza esitazione, quando c’è la necessità. Fermarsi secondi a pensare ad una risposta e tentennare con la voce e le argomentazioni non convince nessuno. Chi sa recitare lo fa di rimando, immediato.

È questo che fa la differenza tra chi sa e chi non è in grado.

“Ma dove abiti?” Era facile da convincere, lo capii subito.

“In via Procaccini, lontano da qui.” Un carico di briscola.

“Appuntato è vero, non abita in questo rione, la via sulla carta d’identità è quella e il motorino è del ragazzo.” Un complice involontario è quello che serve quando si bluffa a carte.

“Davvero non sapevi che è divieto d’accesso?” Si stava convincendo. Avevo la faccia del bravo ragazzo, stavo lontano da casa, passare da lì una volta era permesso, insomma avevo giocato la carta della risposta schietta e veritiera.

“No, non ci passo da mesi.” Briscola.

Ero passato di lì alla stessa maniera due sere prima. Una sera andavo io da Giancarlo, quella appresso veniva lui da me, passando per il medesimo senso vietato.

“E l’ultima volta era transitabile.” Aggiunsi. Questa era l’unica cosa vera detta in quella situazione, perché il comune aveva deciso di cambiare i sensi di marcia da qualche mese.

“Va beh, mi hai convinto, gira il motorino a vai per il sento giusto. Se ti becco un’altra volta te lo sequestro.” Appuntati così non ce ne sono più tanti, prevenire piuttosto che reprimere, mentire piuttosto che farsi dare una multa, con arte, come essere uno dell’Actors studio.

La mia arte funziona in tutto, tranne che in amore. In questo caso non riesco ad essere altrettanto bravo, mi scoprono subito. Tentenno, arrossisco, anche senza dolo e mi faccio capire.

Sono uno dalla duplice personalità. Imbroglio con le parole chiunque io abbia di fronte.

Se tardo a rientrare, perché ho dato un passaggio ad una collega fin alla stazione degli autobus, quando in casa mi chiedono la ragione del ritardo, pur senza motivo, mi sento colpevole. Rispondendo: ‘Ho bucato una gomma’, perché non riesco a non dire menzogne e raccontare il vero, avverto di non essere brillante come dovrei. Mi si legge negli occhi, il colore del volto parla chiaro e il tono della voce testimonia che sto raccontando l’ennesima frottola. Ogni volta m’incarto e finisce tra mille sospetti ………